Spazi intimi

Ho comprato la mia copia di The Poetics of Space di Gaston Bachelard alla libreria Triangle dell’Architectural Association, in un’epoca in cui il prefisso telefonico del centro di Londra iniziava ancora con ‘071’ e mentre ero il corrispondente di architettura del giornale domenicale The Observer. Quella copia è rimasta da allora sullo scaffale sopra la mia scrivania, conservata per un periodo di tregua e di calma. Ora, rinfrescando i miei ricordi del libro, in un momento in cui l’insipidezza prevalente della pianificazione e del design raramente consente una risposta soggettiva, persino poetica, mi sono immerso di nuovo nelle sue durevoli, esasperanti attrazioni.

La Poétique de l’Espace (1958) fu pubblicato per la prima volta in inglese nel 1964, due anni dopo la morte di Bachelard, poi in brossura nel 1969, e riedito nel 1994. Piccolo libro allusivo, il suo autore era un filosofo molto rispettato che, alla fine della sua carriera, era passato dalla scienza alla poesia. Nulla del suo percorso intellettuale era stato ortodosso, in particolare se misurato contro le rigide norme della vita accademica francese e l’avanzamento. Veniva da un ambiente provinciale della Champagne, un impiegato delle poste, che era salito in gran parte grazie alla tenacia intellettuale fino a ricoprire una cattedra di filosofia alla Sorbona. Bachelard era, a detta di tutti, un conferenziere inimitabile, e sulla pagina si aggira, come un cicerone amabile e gentile come si può sperare di trovare, presentandosi come “un drogato di letture felici” il cui scopo è di estendere le percezioni, approfondire le risonanze e rafforzare le connessioni. La Poetica dello spazio, il suo ultimo libro, è presto apparso nelle liste di lettura accademiche e nelle scuole di architettura e d’arte, infilato accanto alle opere di teorici e professionisti della cultura più noti. Abbastanza sorprendentemente, è ancora lì.

Il termine ‘bachelardiano’ è diventato la stenografia culturale per le possibilità liriche di evocare la memoria dagli edifici, ed è questo libro che l’ha portato, e lui, alla ribalta fuori dalla Francia. Il primo capitolo, che tratta della ‘casa dalla cantina alla soffitta’ potrebbe essere tutto ciò che lo studente leggerà, poiché, a differenza del legame diretto e deterministico tra le idee di sorveglianza negli scritti di Michel Foucault e le loro radici nel Panopticon di Jeremy Bentham, la dipendenza di Bachelard dalla poesia, con digressioni in botanica, Carl Jung e molto altro, è intrigante ma sempre ellittica. Rimane, secondo il mio limitato sondaggio internazionale attraverso le generazioni, un libro ancora più spesso citato che letto.

Gaston Bachelard nel suo studio nel 1961. Foto di Bernard Pascucci/INA/Getty

Nel 1961, Bachelard è stato intervistato, all’età di quasi 80 anni, a casa sua, nel suo piccolo studio claustrofobico a Parigi. Se ne sta comodamente seduto, apparentemente incastrato nell’unico spazio disponibile, tra cumuli traballanti di libri accatastati dal pavimento al soffitto, dai fogli agli esili opuscoli, il filosofo incarnato, fino alla sua effervescente barba socratica e agli indisciplinati capelli bianchi. La vita, dice con leggerezza al suo impressionato intervistatore, è pensare e poi continuare a vivere. Ammette di ascoltare ogni giorno il notiziario radiofonico.

Come disse Foucault di Bachelard qualche anno dopo, il suo approccio caratteristico era quello di evitare ogni gerarchia definita, ogni giudizio universale: ‘Gioca contro la propria cultura con la propria cultura’. Se ne stava in disparte, separandosi dalla corrente principale, trovando crepe, dissonanze, fenomeni minori che poteva fare suoi. La poesia di ogni descrizione era la sua materia prima.

Il lavoro precedente di Bachelard aveva avanzato la teoria della rottura epistemologica, ampiamente accettata da Foucault e da altri, in cui il pensiero scientifico si libera da ciò che prima lo aveva costretto o ingombrato. In modi sottili, lasciati all’interpretazione del lettore, Bachelard segnalava ora una rottura altrettanto netta con la stanca sterilità del modernismo postbellico in architettura, dando peso all’indimenticabile nel contesto dell’ordinario. Egli considerava che “lo spazio abitato trascende lo spazio geometrico” ma, caratteristicamente, le sue parole non facevano altro che implicare il valore considerevole della memoria impressa o la traccia del significato.

Nel libro, ci guida attraverso una casa reale o immaginaria (a scelta), le sue comodità e i suoi misteri, assemblati e messi a fuoco, in un luogo e in un tempo indefiniti se non dai limiti dei nostri sogni, desideri e ricordi – quei paesaggi interiori dai quali, diceva, possono essere creati nuovi mondi. Il filosofo evoca un passato idealizzato, pone la miniatura contro l’immenso e ci guida indietro nell’infanzia. Una volta lì, a casa, ci ricorda come tendiamo a guardare giù per le scale della cantina, con apprensione, mentre guardiamo in alto, verso la soffitta, sempre con ansia. L’incertezza si contrappone alla promessa, il buio alla luce. Questa casa è una chiave per un io interiore, “perché l’infanzia è certamente più grande della realtà”.

Tematicamente, Bachelard divide la casa schematica in un’entità verticale e anche concentrata: “un corpo di immagini che danno all’uomo prove o illusioni di stabilità”. Il suo uso della fenomenologia architettonica lascia la mente libera di farsi strada, sempre pronta per ciò che potrebbe emergere nel processo. La casa è “la topografia del nostro essere intimo”, sia il deposito della memoria che l’alloggio dell’anima – in molti modi semplicemente lo spazio nella nostra testa. Non offre scorciatoie o vie di fuga, poiché “il fenomenologo deve perseguire ogni immagine fino in fondo”.

Dopo un viaggio attraverso “sotterranei di leggendari castelli fortificati … un ammasso di cantine per radici”, egli lancia ai suoi lettori, in un cambio di tono e di immagini abbastanza scioccante, un’antitesi completa, in cui il suo pregiudizio contro l’urbanità e l’apparente convenienza delle abitazioni prodotte in serie è messo a nudo: “A Parigi non ci sono case, e gli abitanti della grande città vivono in scatole sovrapposte”. Questi edifici non hanno “radici” come lui le riconoscerebbe, perché non ci sono cantine nei grattacieli:

Gli ascensori eliminano l’eroismo della salita delle scale, così che non c’è più alcuna virtù nel vivere vicino al cielo. La casa è diventata mera orizzontalità. Le diverse stanze che compongono l’abitare incastrato in un piano mancano tutte di uno dei principi fondamentali per distinguere e classificare i valori dell’intimità.

Inoltre, non c’è uno spazio di mediazione; tutto diventa meccanicistico e “da ogni parte fugge il vivere intimo”.

In questo sorprendente e singolare sfogo, agghiacciante da leggere dopo l’incendio della Grenfell Tower a Londra lo scorso giugno, Bachelard sembra invocare una visione estrema in cui gli individui devono cavarsela da soli, avendo la società chiuso un occhio nella loro distopia. Non c’è un altro passaggio nel libro che sia altrettanto grafico, o particolare. Ma aveva lottato, ammette, sia con Parigi che con l’insonnia, riacquistando il suo equilibrio solo tornando alla preziosa evocazione del poeta Rainer Maria Rilke di una lampada che brucia nella finestra della capanna di un eremita, evocata dall’ultima (o prima?) luce accesa nella strada mentre camminiamo verso casa. Ora la casa può di nuovo assumere “poteri di protezione contro le forze che l’assediano” prima di trasformarsi in un mondo a sé stante.

Il viaggio nell’intimità è evocato ordinatamente da cassetti, armadi, guardaroba e soprattutto serrature

Un uomo anziano con il cuore ancora nella Francia rurale, e un marcato accento provinciale per provarlo, cosa aveva da offrirgli la sempre meno familiare città moderna, la sua economia e politica? Mettendo in guardia contro un “utilitarismo molto chiuso”, si astiene dal suggerire se l’anomia della visione collettivista che dipingeva fosse quella di una società capitalista o comunista. Tale era la sua apparente innocenza, che la maggior parte dei lettori non si pone nemmeno la domanda.

All’interno, in La poetica dello spazio, il viaggio nell’intimità è accuratamente evocato da cassetti, armadi, guardaroba e soprattutto serrature, sebbene egli metta in guardia, un po’ testardamente, dal loro uso come metafore gratuite (ed è fortemente contrario all’idea di abitudine). Ma le sue pagine offrono una continua tentazione di allontanarsi, di indulgere in un proprio processo felice e serendipitoso. Così nell’esplorazione della vita domestica delle donne comuni del XVIII secolo, Behind Closed Doors (2009), Amanda Vickery illustra come il possessore di un semplice contenitore chiuso a chiave si trovasse immediatamente in una posizione di superiorità rispetto ai suoi pari. Un singolo lucchetto la rendeva inimmaginabilmente più fortunata di un’altra serva con, al massimo, un nascondiglio dietro una parete o sotto un’asse del pavimento. Quella scatola o cassetto, con la sua chiave, indicava una piccola, inestimabile misura di privacy, e la sicurezza dello spazio personale, specialmente in stanze affollate e condivise.

Il benessere del caldo animale (o umano) protetto nel suo nido o bozzolo o casetta dalle intemperie che imperversano fuori è un primitivo senso di rifugio che tutti possiamo condividere, adulti o bambini. Il fascino di un rifugio sicuro si traduce nell’architettura domestica con caratteristiche come l’accogliente inglenook dell’Arts and Crafts, i posti a sedere vicino al fuoco, l’inclinazione duratura di Frank Lloyd Wright per un immenso camino sepolto al centro di una casa, o anche, un tocco preferito degli anni ’60, il pozzo della conversazione – con o senza il suo tappeto shagpile di marca. Lo scrittore britannico Ken Worpole suggerisce che le osservazioni di Bachelard si applicano in particolare ai recenti sviluppi nella progettazione degli ospizi, in cui, concentrandosi sull’immaginario psicologicamente risonante della casa, il focolare e il tavolo della cucina, il familiare e il rassicurante, “i luoghi di attesa impotente sono ri-fabbricati … come luoghi di contemplazione e un raduno di memoria e scoperta di sé”.

È strano che un filosofo che ha così tenacemente escluso gli ambienti aspri e le dure circostanze del mondo esterno, nella cultura di massa, nella politica o nell’architettura, sia stato così ben accolto nei modernisti di fine anni Sessanta mentre scriveva, essenzialmente, di una versione nostalgica della rustica vita contadina mediterranea.

Bachelard condivideva qualcosa degli istinti e delle preferenze dimostrate in forma grafica nel seminale Architecture Without Architects (1964) dello scrittore e architetto americano Bernard Rudofsky. Questo libro è nato come una mostra al Museum of Modern Art di New York, sostenuta da auguste figure del pantheon architettonico contemporaneo come Walter Gropius, Gio Ponti e Kenzo Tange. Nel celebrare le seducenti costruzioni di “umanità”, Rudofsky ha illustrato le qualità “quasi immutabili” dell’architettura vernacolare: la sua struttura, i materiali e la pianificazione istintiva, come ha trasmesso la memoria e ha accolto “i capricci del clima e la sfida della topografia”. Era, in breve, tutto ciò che il modernismo non era – nel bene e nel male.

Prima, W H Auden aveva coniato la parola ‘topofilia’ quando stava scrivendo, abbastanza sorprendentemente, un’ammirata introduzione a un’edizione americana delle poesie di John Betjeman Slick but not Streamlined nel 1947. In tarda età, Auden scrisse una serie di 15 versi intitolati Thanksgiving for a Habitat (1960-1964). Erano una celebrazione della contentezza domestica nel suo cottage austriaco, ed erano strutturati intorno alle stanze della casa, tra cui ‘la Caverna del Senso’ (il suo studio), la cantina, la soffitta, e la sua camera da letto ‘la Caverna della Nudità’. Nella poesia del titolo finisce felicemente scrivendo di “un posto in cui posso entrare e uscire”. A quel punto, l’Auden (francofono) aveva letto il viaggio di Bachelard attraverso una casa di ricordi – un tale paradiso topofilo?

Quando il critico d’architettura britannico Peter Reyner Banham scrisse la sua lettera d’amore al deserto del sud-ovest, Scenes in America Deserta (1982), era quasi inevitabile che si rivolgesse a Bachelard per un chiarimento, dato che “è diventato l’autorità più citata su questioni spaziali negli ambienti in cui mi muovo”. Con suo disappunto, Banham trovò il noto pensatore “striminzito e autodifensivo” per i suoi scopi, poiché l’unica immensità promessa, “una categoria filosofica di sogno ad occhi aperti”, era quella all’interno di se stessi – del tutto troppo confusa per il cronista del Nuovo Brutalismo. Forse Banham, il suo cuore così recentemente catturato dal deserto, era offeso dall’osservazione di Bachelard che un immenso orizzonte di sabbia potrebbe essere nient’altro che un “deserto per scolari, il Sahara che si trova in ogni atlante scolastico”.

L”armadio’ delle aree gioco per bambini; una biblioteca nascosta sotto le scale; un universo di emozioni in un angolo

Per tutto questo, il mondo alla moda di Banham, fatto di architetti americani di stampo innovativo, in particolare il postmoderno Charles Moore e il teorico Christopher Alexander, autore di A Pattern Language (1977), era stato a lungo ammaliato dal libro di Bachelard. Moore aveva idee forti sulla relazione dell’architettura con la storia e, al di là della casa privata, sulla progettazione dello spazio pubblico che serviva ad animare la società. Come ha scritto il critico americano Alexandra Lange, Moore aveva una particolare predilezione per gli spazi domestici avanzati: “angoli, portici, soppalchi e scaffali progettati per creare spazio per collezioni e hobby, rifugio per diversi stati d’animo e palcoscenici per conversazioni più intime”. Si riferiva a loro come ‘bisacce’, ma erano sicuramente solo spazi poetici assemblati. O forse siedono accanto all’ammirato Bernard Palissy, l’architetto e paesaggista del XVI secolo la cui indagine sulla costruzione di fortezze in natura includeva una lumaca che lo faceva dalla sua stessa saliva e ricordava a Bachelard i suoi primi giorni nelle scienze naturali. Osservando che i più piccoli dettagli “aumentano la statura di un oggetto” e, citando da un dizionario di botanica cristiana, che esemplificava la pervinca come osservata da un “uomo con una lente di ingrandimento”, Bachelard trasportava i suoi lettori a un “punto sensibile di obiettività”.

I primi lettori anglofoni di Bachelard nel campo dell’architettura e del design erano stati in ritirata dal modernismo formulaico e dalla risacca della derattizzazione. Gradualmente le increspature si diffusero. In Space and Learning (2008), l’ammirato architetto olandese Herman Hertzberger ha fatto un cenno affascinante a Bachelard quando si è riferito all'”armadio” delle aree gioco per bambini piccoli: una piccola biblioteca nascosta sotto le scale, l’uso inventivo di angoli e fessure disponibili e ovunque, “il canguro come nostro ideale” che offre sicurezza e rifugio, la maniglia della porta all’altezza degli occhi di un bambino piccolo, il cassetto che nasconde tesori e un universo di emozioni nell’angolo. In seguito, Colin Ward, autore di The Child in the City (1978) e il più perspicace degli scrittori britannici sull’ambiente costruito, ha celebrato la nozione di Bachelard di “realtà vissuta” all’interno dell’infanzia, una vena di ricca memoria disponibile per essere evocata in età adulta.

Nella sua ordinata frase “leggere una stanza”, Bachelard incoraggiava i lettori a pensare a qualche luogo del proprio passato: “Avete aperto una porta al sogno ad occhi aperti.Come se fosse una risposta a questa ricerca molto personale, la sua descrizione delle “forme emotive degli spazi all’interno delle case e degli appartamenti” rifletteva utilmente le idee junghiane per la scrittrice femminista anglo-francese Michéle Roberts quando allineava i filoni testuali e spaziali dei diari nel suo memoir Paper Houses (2007). Roberts configura il suo viaggio attraverso la vita come un viaggio attraverso la città, passando da uno spazio all’altro, dentro e fuori l’immaginazione. Risponde alle cantine junghiane, luoghi sotterranei e potenzialmente paurosi, contrapposti alle soffitte, leggere e senza minacce, che come Bachelard ha confermato “possono sempre cancellare le paure della notte” ma che sono, essenzialmente, il terreno del critico tedesco Walter Benjamin. Decenni dopo l’apogeo del postmodernismo e le persistenti, spesso astruse, discussioni intorno al “regionalismo critico”, il libro di Bachelard offriva ancora “un nido per sognare, un rifugio per immaginare”, come ha scritto John Stilgoe, professore di storia del paesaggio all’Università di Harvard, nella sua introduzione all’edizione del 1994.

La posizione duratura della Poetica dello spazio come testo chiave vede Bachelard come onnipresente. L’architetto svizzero Peter Zumthor, vincitore del premio Pritzker, potrebbe averlo incanalato nel suo discorso alla RIBA Royal Gold Medal nel 2013, quando ha parlato di un’architettura spogliata di un simbolismo invadente e impregnata di esperienza, portando all’obiettivo finale, “creare uno spazio emotivo”. Enfatizzando la luce, i materiali (che implicano un sofisticato ritorno al vernacolare, nel senso del linguaggio del luogo) e l’atmosfera, intensificata da luoghi remoti e particolari come la casa nel Devon meridionale ora in costruzione nel programma Living Architecture, c’è una chiara confluenza tra il desiderio di Zumthor di essere visto, soprattutto, come un ‘architetto del luogo’ e le intuizioni sottili e romantiche di Bachelard.

L’approccio può anche indicare uno spiegamento di livelli di significato e realtà all’interno di una struttura esistente. Per l’architetto Biba Dow, dello studio Dow Jones di Londra, The Poetics of Space è diventato da tempo “il mio libro preferito e più essenziale sull’architettura”. Dow e il suo socio Alun Jones furono introdotti agli scritti di Bachelard da Dalibor Vesely, il loro tutor del primo anno alla scuola di architettura dell’Università di Cambridge. L’approccio poetico offriva ricche possibilità di estrarre un significato più ampio, la fenomenologia e l’esercizio consentito dell’immaginazione. Per esempio, la chiesa medievale di St Mary-at-Lambeth nel sud di Londra, una volta quasi abbandonata, offre ora una serie di spazi discreti nella sua vita attuale come il Garden Museum, su cui Dow Jones ha lavorato in due fasi successive. Una cappella è diventata un gabinetto di curiosità, esponendo tesori associati al grande cacciatore di piante e giardiniere John Tradescant il Vecchio, fondatore dell’Ashmolean Museum di Oxford, così come dell’originale ‘Arca’ di South Lambeth da cui è cresciuto. Oltre le mura esterne, hanno aggiunto un ‘chiostro’ in mezzo al quale giace Tradescant sotto la sua esotica tomba a cassa intagliata, un mondo di curiosità in sé.

Ma è nel più ampio campo della progettazione urbana che la Poetica dello spazio mi sembra avere la maggiore risonanza, attraverso il lavoro dell’urbanista accademico americano Kevin Lynch e altri. Il viaggio tra la vista aperta verso l’intimità del quasi-recinto era al centro di Townscape, la campagna (o movimento) condotta sulle pagine di The Architectural Review dal 1948 in poi dall’architetto britannico Gordon Cullen e dal direttore della rivista, Hubert de Cronin Hastings.

È tanto l’ispirazione per l’urbanista quanto la fonte di preziosi mobili mentali per il bambino piccolo

Meno ovvio era il peso intellettuale di Nikolaus Pevsner che celebrava, per esempio, la pianificazione “precintuale” o collegiale a Oxford. Più tardi ringraziò Hastings per aver incoraggiato la sua piacevole diversione nel pittoresco, permettendogli, così fermamente asfaltato con il pennello modernista agli occhi del mondo, “la grazia salvifica di un po’ di incoerenza”.

Cullen e il suo collega Ian Nairn estesero l’analisi visiva che Townscape suggeriva a una serie di città statunitensi in un contributo a Exploding Metropolis (1957) dove, insieme all’urbanista Jane Jacobs, analizzarono succintamente, in parole e immagini, le qualità spaziali distinte e identificabili delle città da Austin a San Francisco, da New York a Pittsburgh. Il paesaggio urbano e l’esplorazione contemporanea delle idee di “prospettiva e rifugio” – i termini, ampiamente usati nella teoria del paesaggio, sono quelli del defunto geografo britannico Jay Appleton – condividono qualcosa dell’esplorazione di Bachelard della “miniatura” contrapposta all'”intima immensità”, una sequenza in divenire che è tanto l’ispirazione per il progettista urbano quanto la fonte di preziosi mobili mentali per il bambino piccolo.

In The Image of the City (1960), Lynch ha identificato il ruolo cruciale del senso del luogo che “in sé valorizza ogni attività umana che vi si svolge e favorisce il deposito di una traccia di memoria”. Questa separazione del ‘luogo’ nello spirito e nell’idea potrebbe, sosteneva, essere differenziata fisicamente e concettualmente, come in bordo, percorso, nodo, distretto e punto di riferimento. L’idea di Lynch di ‘imageability’, un modo profondo di cercare l’orientamento, portò Jacobs (un grande ammiratore del suo lavoro) a sottolineare in The Death and Life of Great American Cities (1961) che “solo l’intricatezza e la vitalità dell’uso danno, alle parti di una città, struttura e forma appropriate”. Quando La poetica dello spazio fu disponibile in inglese, un discorso del tutto compatibile era in corso su entrambe le sponde dell’Atlantico, una corrente di pensiero che poteva attingere alla ricca dieta letteraria di Bachelard.

L’orizzonte lontano, catturato, contrapposto a quello strettamente osservato e protetto (o protetto) ha sempre avuto valore nella progettazione del paesaggio, nel passato o nel presente, in Occidente o in Oriente. La vista presa in prestito, così centrale nell’estetica del giardinaggio orientale e nota come shakkei, riflette l’osservazione di Bachelard che la distanza crea miniature sull’orizzonte. In Recovering Landscape (1999), l’inglese James Corner, con sede negli Stati Uniti, uno dei più persuasivi tra gli scrittori attuali sul paesaggio e sia un professionista che un accademico, avverte i lettori di non sottovalutare “il potere dell’idea di paesaggio” all’interno dello spazio fisico in questione, essendo il paesaggio sia “milieu spirituale che immagine culturale”. Questa particolare combinazione di senso spaziale e posizione psichica, sostiene Corner, distingue definitivamente la progettazione del paesaggio dall’architettura e dalla pittura.

Il pensiero di Bachelard, sottilmente adattato al comune per questi scopi, potrebbe sostenere un intenso riesame del tessuto della città. La struttura storica delle grandi città, versioni sempre più complesse e stratificate di se stesse, offre modelli ideali. La High Line di New York, in cui Corner ha giocato un ruolo importante dall’istigazione all’esecuzione, è ora quasi completata mentre si avvicina a Hudson Yards a Penn Station. Essenzialmente un parco lineare sopraelevato, che taglia da nord a sud attraverso gli strati della città esistente – proprio come fa il suo predecessore degli anni Novanta a Parigi dalla Bastiglia ad Austerlitz – rivela, ricorda e conferma il ruolo che l’esploratore potrebbe avere nella città, mentre i ricordi indugiano e rimangono brandelli di mistero.

Un lettore particolarmente ricettivo di The Poetics of Space è la scultrice inglese Rachel Whiteread, il cui lavoro è sempre fissato dalle polarità di assenza e presenza. Il dettaglio dell’ambiente domestico evocato in Untitled (Paperbacks) (1997) è un’esplorazione magistrale dello spazio negativo ma, soprattutto, culmina nella sua opera House (1993), ormai scomparsa da tempo: il calco in cemento di un’intera casa a schiera nella (allora) fuori moda Bow, cui è stata data una breve sospensione (artistica) dell’esecuzione prima della sua demolizione, trasmetteva molteplici significati.

Come scrive lo studioso britannico Joe Moran, vista da lontano poteva sembrare una scultura d’avanguardia, ma “un’ispezione più ravvicinata rivelava segni e imperfezioni nella facciata minimalista, segni della vita quotidiana della casa: caminetti anneriti dalla fuliggine, travi esposte leggermente marce per l’umidità, le rientranze lasciate da interruttori della luce, vecchie prese e serrature delle porte”. In quella straordinaria installazione, così letterale, Whiteread aveva tradotto qualcosa di Bachelard nelle strade reali dell’est di Londra, e da lì, attraverso la sua breve, ma ampiamente registrata e archiviata esistenza, passava House nella memoria.

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