L’Appel Du Vide (The Call of the Void) di Flint

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Al momento non mi sembrava una cattiva idea. Non che stessi pensando ai meriti relativi della proposta. Se devo essere sincero, non si trattava affatto di pensare. Una piccola voce risuonò su, su, su attraverso la mia pelle e scivolò oltre le barriere di sangue e ossa per riecheggiare nel mio punto cieco. Era una seduzione senza rose né romanticismo, i suoi denti affilati, la mia curiosità febbrile.

Non fingo di sapere cosa volesse, se non me, rivoltata, con le cuciture in vista, le sue dita infilate in ciuffi gonfi di imbottitura, il suono dello strappo, seguito da un disfacimento silenzioso come i miei gemiti catturati in gola che riempivano la sua bocca. Volevo il suo desiderio, e se il prezzo era questa trasformazione, questa lacerazione, avrei svuotato le mie tasche per lui, gli spiccioli che tintinnavano come la catena intorno alla mia gola.

Brutto o buono, l’idea era mia. Ho corteggiato il pericolo, i capelli che mi scendevano a spirale fino alla vita, le cosce che lampeggiavano sotto una gonna stretta come una mano sul mio fianco, e quegli stivali che lui aveva commentato nel suo ufficio, dopo la lezione, anni prima che succedesse qualcosa tra noi. Quello era il brivido, il tornante sulla scogliera in riva al mare, il respiro trattenuto e la sua mano sulla mia guancia, sbattuta dal vento e pungente.

Vorrei dare la colpa al vento, alle raffiche, a me, traballante sul bordo.

Per anni e anni, il mio orecchio è stato rivolto al canto delle sirene delle donne, bellissime e naufragate nelle loro baie bagnate dal mare, che mi chiamavano, mi chiamavano nel profondo. Loro chiamavano, e io venivo.

Poi venne il mio desiderio obbediente. Le mie ginocchia livide e le mie suppliche. Il piacere di mettere la mia bocca intorno alle parole, sì, e Signore. L’insondabile beatitudine di volare, e cadere, da un’altezza così grande e terribile, la sua lingua che rastrellava i carboni ardenti in un rivolo di sudore che scivolava giù tra i miei seni, giù come il latte che presto avrei versato sul mio labbro pesante, un rivolo freddo come i suoi occhi bianco-azzurri ora caldi e che si raccoglieva tra le mie gambe, la terra che si sollevava in un sussulto infrangibile, le sue dita premute contro le mie labbra dischiuse, zittendo le mie grida.

Vorrei dare la colpa alla sua mano sulla mia schiena, il mio appoggio è una battaglia persa da tempo.

Non posso nemmeno incolpare me stessa, o il sorriso a denti storti dell’abisso, che mi chiama. La mia caduta da Alice nel paese delle meraviglie giù, giù, giù in quella lussuria senza fondo è più cara a me di quanto oso dire, e se la verità fosse che mi trovassi di nuovo lassù, lassù sul bordo con lui, guarderei, e salterei, fedele come un cane.

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Immagine di testa per gentile concessione di Fiona Roberts. Per vedere la sua Artist Feature, vai qui.

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